Due anni e mezzo fa anche Elly Schlein, all’epoca vicepresidente emiliano-romagnola, salì a Gaggio Montano, sull’Appennino bolognese, a dare solidarietà alle 222 lavoratrici e lavoratori della Saga Coffee, che rimasero in presidio alcune settimane per scongiurare la decisione della proprietà di chiudere la fabbrica. Alla fine loro ce la fecero, oggi però nuove nubi si addensano su due altri stabilimenti della cittadina di sole 5mila anime sulla Porrettana, quella Caffitaly che dà lavoro a 185 addetti diretti, con 15 interi nuclei familiari impiegati nella produzione di capsule di caffè e nell’assemblaggio di macchine professionali per gustarlo.

Alle radici di una vertenza che nei giorni scorsi ha portato ad uno sciopero di otto ore, con altre quattro giornate di astensione già programmate, ci sono problemi sia di politiche industriali che di crisi finanziaria da parte della proprietà, in mano a fondi di investimento. “Fino allo scorso anno alla Caffitaly c’era un accordo sindacale – spiega Marco Ramponi che guida la Flai Cgil di Bologna – ed era atteso un nuovo piano industriale. Ma poi è stato azzerato il management e sono emersi dei problemi finanziari, con trattative con un pool di banche per rinegoziare un debito robusto. Quello prossimo a scadenza si aggira sui 120 milioni, quello complessivo tocca i 150 milioni”.

Come se non bastasse, in un mercato “maturo” come quello delle capsule, e con i costi della materia prima saliti negli ultimi due anni a causa delle crisi internazionali e delle speculazioni collegate, a penalizzare le fabbriche di Gaggio Montano è la divisione del lavoro con gli altri stabilimenti Caffitaly: “Una sessantina di lavoratori lavora all’assemblaggio delle macchine professionali del caffè – puntualizza Ramponi – quelle ‘grandi’ che si trovano negli hotel, sulle navi, in luoghi di lavoro affollati. Gli altri invece sono impegnati nella produzione e commercializzazione di capsule che però qui vengono prodotte in conto terzi, perché quelle a marchio Caffitaly sono fatte a Capriate San Gervasio nella bergamasca, in un altro stabilimento con circa 200 dipendenti”. E dato che le capsule “compatibili” hanno un valore aggiunto più basso, solo una produzione massiccia può far quadrare i conti.

La decisione di incrociare le braccia è arrivata dopo un incontro in Città metropolitana a Bologna con l’azienda, le istituzioni e Claudio Solferini, l’esperto della Camera di commercio felsinea individuato nell’ambito di un “procedura di composizione negoziata”. “Invece di un tavolo di crisi – spiega ancora Ramponi – l’azienda ha preso questa strada, una sorta di concordato preventivo, senza darne conto alle istituzioni e ai sindacati. Ha anche presentato istanza di applicazione di misure protettive del patrimonio. Ma quello che più preoccupa è lo slittamento del nuovo piano industriale: doveva arrivare a inizio aprile, ora lo attendiamo a fine maggio”.

“C’è un problema di tenuta finanziaria e le commesse calano – tira le somme il segretario generale della Flai Cgil bolognese – e con la vertenza diciamo che non può esserci una strategia dei ‘due tempi’: entrambi gli aspetti della crisi di Caffitaly vanno affrontati insieme, la soluzione della parte finanziaria non può condizionare quella della parte produttiva”.

Nel mentre la vertenza di un’altra “fabbrica del caffè” in crisi nel bolognese, la Beyers Caffè Italia di Castel Maggiore, con 30 addetti licenziati dalla controllante svizzera Sucafina, ha trovato una pur minima svolta positiva: l’azienda è ora disposta ad una cig di 12 mesi “per cessazione di attività”: “Insieme agli enti locali stiano già lavorando per ricollocare i lavoratori – chiude Ramponi – tutti addetti specializzati”.